Titolo: Il mio tutto
Edizione: I, giugno 2020
Isbn: 9788869346460
PP: 536,
18 €
Ufficio stampa Bibliotheka Edizioni
Un romanzo toccante sull’accettazione della propria e dell’altrui diversità e sul difficile percorso che una simile scelta comporta.
L’opera
“Come si fa quando non riesci a stare insieme a una
persona ma non riesci nemmeno a stare senza?”.
Davide se lo chiede dal momento in cui ha conosciuto
Cristian.
A sedici anni arriva in una nuova scuola, a Parma, e
si fa subito notare: ama disegnare e non nasconde di essere gay. Per questo
viene preso di mira da alcuni compagni. Il leader dei bulli, Cristian, è il
campione di nuoto della scuola: fisico atletico, occhi azzurri e un sorriso
spietato. Cristian detesta Davide. Almeno finché non lo bacia.
Il loro è il primo grande amore, giovane, intenso,
tanto inaspettato quanto assoluto.
Cristian si scopre indifeso davanti a un desiderio
inarrestabile, senza mezze misure, e non sa come affrontarlo. Abbandonarsi a un
sentimento che lo rende diverso o respingerlo? Ammettere che le fragilità di
Davide sono un po’ anche le sue o usarle per allontanarlo? Una scelta indolore
non sembra esistere, perché l’amore non ha sesso, né limiti, e sa essere
implacabile.
L’autrice
Chiara Zaccardi è nata nel 1986 a Parma, dove
tuttora vive. È laureata in Giornalismo e cultura editoriale e lavora in
un’azienda che si occupa di efficienza energetica.
Con le Edizioni Noubs ha pubblicato il romanzo “I
peggiori ” e il racconto “Occasion ” nell’antologia “Limite acque sicure ”. Per
Edizioni Arpanet è uscito il racconto “Parma, ore 3 ” nell’antologia “E tutti
lavorammo a stento ”. Con il Gruppo 26Agosto ed Eros
Viel ha pubblicato il racconto “Prima dell’alba ”
nell’antologia “Poesie e racconti per strada ”, nell’ambito dell’omonimo
concorso letterario.
Il racconto “I giocattoli siamo noi ” è stato tra i
cinque finalisti del Premio Grado Giallo
(Mondadori) del 2012.
DAVIDE
LA MIA TEMPESTA
A casa mi chiudo in camera, tiro
fuori dall’armadio una piccola tela bianca e i colori a olio. Dipingo un corpo
fluttuante in una galassia lattiginosa trapuntata di stelle nere, un corpo
dalla carne in cancrena da cui filtrano centinaia di spiragli di luce
accecante.
Alle dieci di sera mio padre
rientra dalla fabbrica. Fa l’operaio in un’azienda che produce turbine
elettriche e le sue mani sono più dure del titanio delle pale che costruisce.
Lo sento chiedere alla mamma perché stamattina la scuola lo abbia chiamato.
Ripete più volte che lui lavora sodo e che quando può dormire non vuole essere
disturbato da damerini incravattati.
Non appena lei riferisce che
hanno chiamato per me, papà marcia lungo il corridoio, prova ad aprire la mia
porta e poi ci sbatte sopra i pugni urlandomi di aprire.
Giro la chiave. Lascio che vada
come deve andare. Come va sempre. Il suo fisico massiccio occupa tutto lo
spazio. Ha capelli e barba ormai brizzolati dall’età, soltanto gli occhi sono nerissimi.
Li punta su di me e diventa subito rosso in faccia, le vene del collo si
gonfiano. Mi sputa contro minuscoli schizzi di saliva mentre grida che sono un
ritardato, che merito di stare in manicomio, che un figlio bastava e che io non
sarei dovuto nascere, che se avesse previsto tutti i guai che provoco mi
avrebbe ammazzato nella culla.
Potrebbe anche finire qua, in
fondo non gli importa se mi taglio a pezzi un braccio, però poi il suo sguardo
si concentra su qualcosa. Non vede il quadro su cui ho lavorato perché l’ho già
riposto al sicuro, sotto il letto, ma ha imparato a riconoscere l’odore della
pittura e nota le mie dita sporche, segno che gli ho disobbedito di nuovo.
«Devi smetterla di cazzeggiare!
Credi di trovare un lavoro sprecando tempo con roba da donne? È questa tua
mania che ti rende pazzo!» prorompe.
«Non è vero» dico. «Se mai è tutto
il resto».
Odia quando lo contraddico.
Dovrei sempre tenere la bocca cucita, in sua presenza, solo che il mio scarso
spirito di sopravvivenza me lo impedisce.
Mi molla due schiaffi. Al secondo
barcollo all’indietro e mi aggrappo al bordo del tavolo per non cadere.
Strepita qualche altro gentile appellativo, avverte che mi impedirà di uscire
in caso mi trovi nuovi tagli addosso e finalmente se ne torna in cucina.
Chiudo gli occhi, tentando di
riportare il battito cardiaco a un ritmo normale.
Ho le guance in fiamme.
Penso che domani, a scuola, dovrò
affrontare altra gente che non mi sopporta. Dovrò di nuovo affrontare Cristian
e i suoi amici. Il cuore rifiuta di calmarsi.
Vorrei che il nonno fosse qui.
Era l’unico dei miei parenti con
cui avevo un buon rapporto. Lui mi incitava a disegnare, forse perché era un
antiquario, o forse semplicemente perché mi voleva bene.
Cinque anni fa, poco prima dell’infarto
che l’ha ucciso, ha deciso che c’era un posto che dovevo vedere. Mi ha portato
a Madrid. Non ha chiesto ai miei genitori o a mio fratello di unirsi a noi, ha
ignorato le proteste della mamma e ha portato me.
Visitare insieme il Palazzo
Reale, il Prado e Plaza Mayor è stata un’esperienza unica. Mi parlava di
storia, d’arte e di cultura non come si parla a un bambino, ma come si parla a
una persona che ha davanti un futuro grandioso.
Siamo arrivati nel luogo che
voleva mostrarmi, il Museo della Reina Sofia, dopo aver camminato tutto il
giorno per la città.
«Nonno sono stanco» gli ho detto.
«Sai perché siamo qui?» mi ha
chiesto.
Ho scosso la testa.
«Mi piace visitare i musei per
trovare un’opera, una sola opera, che diventi mia».
«Queste opere non le puoi
comprare» ho ribattuto.
«È vero. Ma è un po’ come quando
ascolti per caso le prime note di una canzone sconosciuta alla radio: non sai
cosa sia, magari non riesci ancora a capirla bene, però la senti. Smetti di
ascoltarla e la senti. La senti dentro di te, come se andasse a occupare un
posto vuoto nel tuo animo che neanche sapevi di avere e a cui, ora che l’hai
scoperto, non puoi più rinunciare. Nel tempo di un istante quella canzone
diventa tua, anche se migliaia di persone la canteranno. Ecco quello che sto
cercando».
«Insomma vuoi innamorarti di un
quadro a caso?»
Ha riso: «Innamorarsi è la più prorompente
delle emozioni. Non succede mai per caso».
«E credi che oggi la troverai, l’opera
che diventerà tua anche
se l’ha fatta qualcun altro?»
«Chi l’ha fatta sa che non sarà mai solo sua. L’arte è di tutti» mi ha posato una mano sulla
spalla e ha indicato l’ingresso. «Avanti. Lasciati stupire».
Le sale erano immense, mi
parevano infinite e piene di rappresentazioni bizzarre. C’erano cose strane, lì
dentro. Chi le aveva dipinte doveva essere a sua volta strano. O forse,
semplicemente, chiunque dipingesse doveva essere strano, perché quelle erano proiezioni del sé.
La maggior parte andavano al di là
della mia comprensione, alcune non mi dicevano proprio niente.
Sono entrato nell’ennesima
stanza, ho dato un’occhiata veloce a ciò che mi stava di fronte, poi mi sono
girato verso destra per raggiungere il nonno, in un corridoio più avanti.
Speravo di riuscire a convincerlo a rientrare in albergo.
È stato allora che l’ho vista: una
tela grande, da cui precipitava e poi esplodeva un ammasso di colore nei toni
del nero, del grigio, del bianco.
“Rafael Canogar, Pintura n° 27”,
recitava la targhetta alla sua destra.
Mi sono avvicinato per osservare
i dettagli della pittura densa, spessa, pesante. Sono tornato indietro e mi ci
sono seduto di fronte: non riuscivo a staccare gli occhi da ciò che vedevo.
Avrei voluto toccarla, avrei voluto premere la mia pelle lì sopra fino a farmi
male, avrei voluto entrarci dentro.
Di colpo non mi interessava più guardare
nient’altro. Non so quanto ci sono restato davanti, a tracciare con gli occhi
il movimento vivo, tormentato e cruento che avviluppava l’immagine. So solo che
il nonno è stato costretto a tornare indietro dal suo giro per recuperarmi.
Mi si è seduto accanto: «L’hai
trovata» ha detto. «Sembra
una tempesta».
Era quello e molto di più. Era
oltre. Era uno squarcio, una caduta nel vuoto, un grido liberatorio, un tumulto
in divenire.
«Sapresti esprimere perché ti piace? Di solito è difficile».
No, era facile.
«Perché è come me».
Ricordo di aver pensato: “Questo
sono io come non mi ero mai visto”.
Non avevo idea di chi fosse
Canogar, però avevo capito cosa intendeva il nonno. E avevo capito che poteva
esserci uno scopo, nei miei disegni.
Avrei voluto restare. Avrei
voluto poter vedere quella cosa ogni giorno. Avrei voluto riprodurre la stessa
connessione.
E guardandola mi sarei placato.
Avrei pensato: “Se lei è ancora qui posso esserci anch’io”.
Il nonno mi ha proposto di fare
una foto per ricordarla, ma non era necessario.
Una foto non era niente. Non era
lei.
Avevo trovato la mia tempesta.

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