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martedì 3 novembre 2020

Segnalazione - Il mio tutto - di Chiara Zaccardi

 


Titolo: Il mio tutto

Edizione: I, giugno 2020

Isbn: 9788869346460

PP: 536,

18 €

Ufficio stampa Bibliotheka Edizioni 

Un romanzo toccante sull’accettazione della propria e dell’altrui diversità e sul difficile percorso che una simile scelta comporta.

L’opera

 

“Come si fa quando non riesci a stare insieme a una persona ma non riesci nemmeno a stare senza?”.

Davide se lo chiede dal momento in cui ha conosciuto Cristian.

A sedici anni arriva in una nuova scuola, a Parma, e si fa subito notare: ama disegnare e non nasconde di essere gay. Per questo viene preso di mira da alcuni compagni. Il leader dei bulli, Cristian, è il campione di nuoto della scuola: fisico atletico, occhi azzurri e un sorriso spietato. Cristian detesta Davide. Almeno finché non lo bacia.

Il loro è il primo grande amore, giovane, intenso, tanto inaspettato quanto assoluto.

Cristian si scopre indifeso davanti a un desiderio inarrestabile, senza mezze misure, e non sa come affrontarlo. Abbandonarsi a un sentimento che lo rende diverso o respingerlo? Ammettere che le fragilità di Davide sono un po’ anche le sue o usarle per allontanarlo? Una scelta indolore non sembra esistere, perché l’amore non ha sesso, né limiti, e sa essere implacabile.

 

L’autrice

Chiara Zaccardi è nata nel 1986 a Parma, dove tuttora vive. È laureata in Giornalismo e cultura editoriale e lavora in un’azienda che si occupa di efficienza energetica.

Con le Edizioni Noubs ha pubblicato il romanzo “I peggiori ” e il racconto “Occasion ” nell’antologia “Limite acque sicure ”. Per Edizioni Arpanet è uscito il racconto “Parma, ore 3 ” nell’antologia “E tutti lavorammo a stento ”. Con il Gruppo 26Agosto ed Eros

Viel ha pubblicato il racconto “Prima dell’alba ” nell’antologia “Poesie e racconti per strada ”, nell’ambito dell’omonimo concorso letterario.

Il racconto “I giocattoli siamo noi ” è stato tra i cinque finalisti del Premio Grado Giallo

(Mondadori) del 2012.

 

DAVIDE

 

LA MIA TEMPESTA

 

A casa mi chiudo in camera, tiro fuori dall’armadio una piccola tela bianca e i colori a olio. Dipingo un corpo fluttuante in una galassia lattiginosa trapuntata di stelle nere, un corpo dalla carne in cancrena da cui filtrano centinaia di spiragli di luce accecante.

Alle dieci di sera mio padre rientra dalla fabbrica. Fa l’operaio in un’azienda che produce turbine elettriche e le sue mani sono più dure del titanio delle pale che costruisce. Lo sento chiedere alla mamma perché stamattina la scuola lo abbia chiamato. Ripete più volte che lui lavora sodo e che quando può dormire non vuole essere disturbato da damerini incravattati.

Non appena lei riferisce che hanno chiamato per me, papà marcia lungo il corridoio, prova ad aprire la mia porta e poi ci sbatte sopra i pugni urlandomi di aprire.

Giro la chiave. Lascio che vada come deve andare. Come va sempre. Il suo fisico massiccio occupa tutto lo spazio. Ha capelli e barba ormai brizzolati dall’età, soltanto gli occhi sono nerissimi. Li punta su di me e diventa subito rosso in faccia, le vene del collo si gonfiano. Mi sputa contro minuscoli schizzi di saliva mentre grida che sono un ritardato, che merito di stare in manicomio, che un figlio bastava e che io non sarei dovuto nascere, che se avesse previsto tutti i guai che provoco mi avrebbe ammazzato nella culla.

Potrebbe anche finire qua, in fondo non gli importa se mi taglio a pezzi un braccio, però poi il suo sguardo si concentra su qualcosa. Non vede il quadro su cui ho lavorato perché l’ho già riposto al sicuro, sotto il letto, ma ha imparato a riconoscere l’odore della pittura e nota le mie dita sporche, segno che gli ho disobbedito di nuovo.

«Devi smetterla di cazzeggiare! Credi di trovare un lavoro sprecando tempo con roba da donne? È questa tua mania che ti rende pazzo!» prorompe.

«Non è vero» dico. «Se mai è tutto il resto».

Odia quando lo contraddico. Dovrei sempre tenere la bocca cucita, in sua presenza, solo che il mio scarso spirito di sopravvivenza me lo impedisce.

Mi molla due schiaffi. Al secondo barcollo all’indietro e mi aggrappo al bordo del tavolo per non cadere. Strepita qualche altro gentile appellativo, avverte che mi impedirà di uscire in caso mi trovi nuovi tagli addosso e finalmente se ne torna in cucina.

Chiudo gli occhi, tentando di riportare il battito cardiaco a un ritmo normale.

Ho le guance in fiamme.

Penso che domani, a scuola, dovrò affrontare altra gente che non mi sopporta. Dovrò di nuovo affrontare Cristian e i suoi amici. Il cuore rifiuta di calmarsi.

Vorrei che il nonno fosse qui.

Era l’unico dei miei parenti con cui avevo un buon rapporto. Lui mi incitava a disegnare, forse perché era un antiquario, o forse semplicemente perché mi voleva bene.

Cinque anni fa, poco prima dell’infarto che l’ha ucciso, ha deciso che c’era un posto che dovevo vedere. Mi ha portato a Madrid. Non ha chiesto ai miei genitori o a mio fratello di unirsi a noi, ha ignorato le proteste della mamma e ha portato me.

Visitare insieme il Palazzo Reale, il Prado e Plaza Mayor è stata un’esperienza unica. Mi parlava di storia, d’arte e di cultura non come si parla a un bambino, ma come si parla a una persona che ha davanti un futuro grandioso.

Siamo arrivati nel luogo che voleva mostrarmi, il Museo della Reina Sofia, dopo aver camminato tutto il giorno per la città.

«Nonno sono stanco» gli ho detto.

«Sai perché siamo qui?» mi ha chiesto.

Ho scosso la testa.

«Mi piace visitare i musei per trovare un’opera, una sola opera, che diventi mia».

«Queste opere non le puoi comprare» ho ribattuto.

«È vero. Ma è un po’ come quando ascolti per caso le prime note di una canzone sconosciuta alla radio: non sai cosa sia, magari non riesci ancora a capirla bene, però la senti. Smetti di ascoltarla e la senti. La senti dentro di te, come se andasse a occupare un posto vuoto nel tuo animo che neanche sapevi di avere e a cui, ora che l’hai scoperto, non puoi più rinunciare. Nel tempo di un istante quella canzone diventa tua, anche se migliaia di persone la canteranno. Ecco quello che sto cercando».

«Insomma vuoi innamorarti di un quadro a caso?»

Ha riso: «Innamorarsi è la più prorompente delle emozioni. Non succede mai per caso».

«E credi che oggi la troverai, l’opera che diventerà tua anche se l’ha fatta qualcun altro?»

«Chi l’ha fatta sa che non sarà mai solo sua. L’arte è di tutti» mi ha posato una mano sulla spalla e ha indicato l’ingresso. «Avanti. Lasciati stupire».

Le sale erano immense, mi parevano infinite e piene di rappresentazioni bizzarre. C’erano cose strane, lì dentro. Chi le aveva dipinte doveva essere a sua volta strano. O forse, semplicemente, chiunque dipingesse doveva essere strano, perché quelle erano proiezioni del sé.

La maggior parte andavano al di là della mia comprensione, alcune non mi dicevano proprio niente.

Sono entrato nell’ennesima stanza, ho dato un’occhiata veloce a ciò che mi stava di fronte, poi mi sono girato verso destra per raggiungere il nonno, in un corridoio più avanti. Speravo di riuscire a convincerlo a rientrare in albergo.

È stato allora che l’ho vista: una tela grande, da cui precipitava e poi esplodeva un ammasso di colore nei toni del nero, del grigio, del bianco.

“Rafael Canogar, Pintura n° 27”, recitava la targhetta alla sua destra.

Mi sono avvicinato per osservare i dettagli della pittura densa, spessa, pesante. Sono tornato indietro e mi ci sono seduto di fronte: non riuscivo a staccare gli occhi da ciò che vedevo. Avrei voluto toccarla, avrei voluto premere la mia pelle lì sopra fino a farmi male, avrei voluto entrarci dentro.

Di colpo non mi interessava più guardare nient’altro. Non so quanto ci sono restato davanti, a tracciare con gli occhi il movimento vivo, tormentato e cruento che avviluppava l’immagine. So solo che il nonno è stato costretto a tornare indietro dal suo giro per recuperarmi.

Mi si è seduto accanto: «L’hai trovata» ha detto. «Sembra una tempesta».

Era quello e molto di più. Era oltre. Era uno squarcio, una caduta nel vuoto, un grido liberatorio, un tumulto in divenire.

«Sapresti esprimere perché ti piace? Di solito è difficile».

No, era facile.

«Perché è come me».

Ricordo di aver pensato: “Questo sono io come non mi ero mai visto”.

Non avevo idea di chi fosse Canogar, però avevo capito cosa intendeva il nonno. E avevo capito che poteva esserci uno scopo, nei miei disegni.

Avrei voluto restare. Avrei voluto poter vedere quella cosa ogni giorno. Avrei voluto riprodurre la stessa connessione.

E guardandola mi sarei placato. Avrei pensato: “Se lei è ancora qui posso esserci anch’io”.

Il nonno mi ha proposto di fare una foto per ricordarla, ma non era necessario.

Una foto non era niente. Non era lei.

Avevo trovato la mia tempesta.


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